Stamattina con i miei compagni radiofonici di Radio Onda d’Urto abbiamo registrato una nuova puntata della trasmissione “Il disagio nella civiltà” trattando il tema del lavoro culturale. In studio, per l’occasione, abbiamo avuto l’amico Rinaldo Capra, fotografo bresciano di grande esperienza e di valore, autore tra l’altro di campagne pubblicitarie di successo. Qualche giorno fa Rinaldo aveva dibattuto con Giuseppe Ricca, co-conduttore assieme a me e a Manuel Colosio della trasmissione, su un articolo di Tiziano Bonini, pubblicato il 19 novembre su una rivista on-line (https://www.che-fare.com/lotta-creativa-classe/), proponendo poi di portare in radio alcune di quelle riflessioni stimolate da questo scritto.
L’articolo in questione è una narrazione di una graduale presa di coscienza dell’autore sulla situazione del lavoro culturale in Italia. Lo scritto di Bonini parte con questo incipit:
“C’è un problema di classe nelle industrie creative e culturali italiane. E questo problema è enorme, ma è un elefante nella stanza dei creativi che tutti fanno finta di non vedere.
La “classe creativa” italiana non rappresenta la diversità della società italiana…”
Evviva. Una voce si alza e “da dentro” l’università, spazio eletto del “culturale”, fa un segno sul pavimento e comincia a distinguere quelli che stanno dalla sua parte e quelli che stanno dall’altra. Che significa dividere in due la classe: da una parte quella “composta al suo interno di una frazione ben precisa della società: la classe media urbana, ad alto tasso di capitale culturale/sociale/economico, riprodotto di padre in figlio, di generazione in generazione” e dall’altra quelli come Tiziano Bonini, i figli della provincia, quelli che si sono smazzati la fatica di partire da zero o quasi per trovare uno spazio, anche minimo, nel mondo del lavoro culturale, quello vero, non solo mediaticamente “riconosciuto”, ma anche certificato dalle accademie.
Nel lavoro culturale bisogna guardarci dentro perché lì si agitano due culture: ce n’è una che è quella dominante, che scrive, parla e vende e ce n’è un’altra che è senza i mezzi di produzione, che stenta e che quasi sempre perde e anche se ha qualcosa da dire non ha voce. La prima si vede, fa mostra di sé, ed è quella che ogni tanto afferma che con lei “si mangia”, la seconda è invece alla fame, è magra, stressata fino all’ultimo e prossima alla canna del gas. La prima, sempre sorridente, è quella che ha la voce dei figli di papà (per es. io ogni tanto leggo i cognomi degli inviati RAI della nuova generazione e chissà perché ci trovo sempre i figli di….), dei master ad Oxford e delle precedenze senza fare la fila; la seconda è in fila perenne con il pensiero che il suo destino sarà di restarci per sempre in fila, perché alla fine “non fa testo”, cioè scrive scrive scrive, ma non ha i mezzi per pubblicarsi e farsi messaggio (qualcuno dirà: ma ci sono le piccole case editrici che fanno pubblicazioni me-ra-vi-glio-se…).
Giusto. Io sto con Bonini e con quelli come lui.
Con Rinaldo, Beppe e Manuel stamattina si parlava quindi di lavoro culturale e di creatività. Di lotta di classe nel lavoro creativo. E’ vero, di Bonini (nome che non a caso evoca un mitico mediano della Juve fine anni ’80) e del suo scritto non ne abbiamo parlato molto nella trasmissione; d’altronde il suo articolo era un pretesto per mettere al centro una questione che il nostro autore ha ben centrato e descritto: non c’era molto altro da dire (quindi c’è da faticare e leggere!). La conclusione comunque è: bisogna fare la lotta (creativa) di classe. Forza allora.
Però una cosa particolare nel nostro discorrere radiofonico è venuta fuori ad un certo punto, ed è la postura e l’im-postura del culturale. La postura che assume il lavoratore culturale e l’im-postura che spesso sta dentro il suo discorso. Mi è venuto in mente che Luciano Bianciardi ne “Il lavoro culturale” descrive con minuzia la postura dell’addetto alla cultura (quello poi sputtanato da Battiato in Patriots to arms), figura centrale delle sezioni del vecchio PCI e prototipo per le generazioni future di chi, nel suo piccolo mondo, avrebbe fatto nella sua vita “della cultura”. Ed è alla postura, al gesticolare, a quello che a Roma si dice “atteggiarsi” che secondo me bisogna guardare per individuare qualche traccia del nemico di classe che domina silenziosamente dentro il culturale.
Oggi quella postura è sempre più evidente perché è assunta anche da chi di cultura ne ha veramente poca, ma sa imporre quel poco che ha dai tanti palchi oggi disponibili e che immeritatamente si trova a calcare grazie ai soldi di papà e a tutte quelle cose che il buon Bonini descrive nel suo bell’articolo.
Quindi per iniziare la lotta (creativa) di classe e svelare l’impostura di quel culturale, per prima cosa… osservare la postura!
“