Counseling e Sociologia Clinica

Nella mia esperienza professionale ho incontrato negli anni forme diverse di disagio. E come tutti ho attraversato e attraverso situazioni di disagio che coinvolgono la mia sfera personale (individuale, familiare e amicale).Per formazione e approccio ho sempre deviato dalle categorizzazioni fornite dalle varie discipline che si occupano della cura e l’ho fatto come scelta metodologica per incontrare prima del problema specifico, la persona che a me si rivolgeva per avere un aiuto. Sospendendo il giudizio legato alla definizione diagnostica attribuita al disagio provato da quella persona da altri professionisti, ho tentato – a volte riuscendoci, altre meno – di aggiungere elementi nuovi, ampliando il campo di intervento. Non si trattava tanto di diffidenza verso la scienza medica (che a volte concede un qualche spazio operativo anche alla psicoterapia e ad altri approcci), quanto piuttosto della mia volontà di offrire alla persona una possibilità di pensarsi oltre la patologia che lì lo aveva condotto (nel servizio pubblico nel quale ho operato per diversi anni). Quindi qualcosa di più e di diverso dall’agire contro lo stigma che purtroppo continua a gravare sui tanti che vivono la vulnerabilità e la marginalità (il cui numero è in aumento). Questo modo di accogliere l’altro mi è capitato di sperimentarlo soprattutto nell’ambito nel quale ho lavorato negli anni (anche di formazione) prima di approdare all’attività libero professionale e cioè l’ambito delle dipendenze patologiche e del disagio giovanile.

Le domande che mi faccio quando qualcuno si rivolge a me per un aiuto erano e sono tuttora: 1) Chi è l’altro di fronte a me? 2) Chi c’è al di là di quella patologia che tenta di definirlo in tutte le sue parti?

Rispondere a domande come queste – e di questo sono fermamente convinto – può apportare qualcosa di nuovo sulla scena dell’incontro con la persona che chiede il nostro ascolto. Si tratta di farsi carico di un legame sociale che può aprire nuove prospettive di cambiamento. Un legame che si dà oltre e insieme a quei percorsi terapeutici che hanno il riconoscimento della scienza medica: percorsi che purtroppo spesso sono asettici, standardizzati (oltreché validati all’interno di pratiche spersonalizzanti) perché centrati sull’adattamento e non su un cambiamento disegnato dalle traiettorie del desiderio soggettivo della persona.

L’incontro per me è sempre stato, ed é prima di tutto, con il corpo e la parola dell’altro: dal corpo che si fa gesto, espressione, postura e dalla parola (che emerge dai silenzi e che si inceppa a volte) si disegna a poco a poco il disagio dell’altro come egli lo esperisce, portandolo come può allo sguardo e all’orecchio di chi è lì per ascoltarlo. Un disagio che assume una forma originale in quanto definita insieme nel legame con chi lo accoglie.

La mia formazione e l’esperienza ventennale nel campo del lavoro sociale (educatore, mediatore e formatore) attraversa due traiettorie che portano ad una proposta coerente di approccio al disagio. Da una parte la sociologia, declinata nel suo essere clinica quando rivolta all’intervento, alla pratica e dall’altra l’orientamento psicoanalitico, secondo la lettura di Freud riportato alla luce da Jacques Lacan. Per quanto riguarda il mio essere sociologo clinico sono orgoglioso di fare parte di una piccola cerchia di coloro che si sono formati in Italia all’unico percorso universitario in Sociologia Clinica avviato nel 2006 presso l’Università degli Studi di Teramo e diretto dal Proff. Everardo Minardi. Per quanto riguarda la mia formazione al Counseling ad Orientamento Psicoanalitico* è stato un percorso lungo che ha previsto oltre alla formazione in aula di un triennio, l’analisi personale e il tirocinio (150 ore) che ho scelto di svolgere presso i servizi sociali di una struttura ospedaliera. Dal 2018, avendo avuto inoltre la possibilità di essere docente presso il Centro di Ascolto e Orientamento Psicoanalitico di Pistoia e Firenze occupandomi di Counseling e Istituzione, ho avuto modo di constatare come sia forte l’esigenza nei tanti allievi di quel corso, operatori con esperienza nelle istituzioni (spesso educatori, infermieri e assistenti sociali) di disegnare nuove traiettorie per accogliere le nuove e le vecchie forme di disagio che attraversano questa epoca e sempre più emarginano l’altro nella solitudine e nel distacco dalla prima forma di cura che è rappresentata dal legame sociale.

All’interno di questa visione è la mia proposta di counseling: un ascolto orientato psicoanaliticamente in cui la dimensione sociologica partecipa perché non c’è ascolto e accoglimento dell’altro se non all’interno di una prospettiva che lo riporti dentro ad una rete di legami sociali nella quale ritrovare il senso del proprio esistere.

*Per approfondire il tema del counseling ad orientamento psicoanalitico consiglio la lettura del testo: A. Guidi (2003), L’ascolto ad orientamento psicoanalitico. Una prospettiva formativa per il counselor sociale, Editrice Clinamen, Firenze.

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