Il LAB di Sociologia Clinica sollecita i suoi aderenti a produrre riflessioni sullo scivolamento in atto della pandemia verso il suo divenire sindemia. A dirci che cosa sia una sindemia recentemente è stato il direttore della rivista scientifica Lancet, Richard Horton, le cui affermazioni sono riportate in questo articolo di Edmondo Peralta sulla rivista on-line Il Periodista. Riassumendo quanto scritto, si parla di sindemia quando si è in presenza di “una relazione tra più malattie e condizioni ambientali o socio-economiche. L’interagire tra queste patologie e situazioni rafforza e aggrava ciascuna di esse.”
Si tratta di qualcosa di più di quella che in gergo medico viene chiamata comorbilità, ovvero della compresenza di patologie che genera un quadro clinico infausto. Quel qualcosa in più che interviene è, come detto sopra, la concomitanza di una comorbilità (in questo caso Covid 19 con malattie croniche non trasmissibile come: diabete, obesità, malattie cardio vascolari e respiratori) e di condizioni socio-economiche e ambientali che aumentano la pericolosità di tale comorbilità. Le soluzioni per uscire da una sindemia, per forza di cose, prevedono interventi ad ampio raggio, cambi di paradigma che segnino una differenza reale per le fasce più esposte della popolazione (interventi a 360° su condizioni ambientali, socio-economiche e sanitarie).
Questo in sintesi è quanto definisce il passaggio in atto dalla pandemia alla sindemia, secondo Lancet (e non solo).
Detto questo, cosa può dire e cosa può fare la sociologia in un tempo di sindemia?
Everardo Minardi suggerisce di recuperare la dimensione micro-sociale, riconoscendola “come spazio di ricerca e intervento, senza entrare nelle pratiche proprie di psicologi e psicoterapeuti”. Se ho ben compreso: partire nell’analisi e nell’intervento dal locale (individuale?), per avvicinarsi gradualmente al globale. Un approccio pratico di confronto sul territorio per produrre diagnosi sociale rispetto all’individuazione di nuove prassi da agire al di fuori dell’intervento istituzionale, pubblico. Una costruzione dal basso di un welfare di prossimità che parta dal mutuo-aiuto, dalla reciprocità, perché tutti ormai siamo coinvolti dentro il processo sindemico in atto e la risposta dalle istituzioni è scarsa, insufficiente.
In buona parte mi sento di aderire a questa proposta di azione dal basso: credo sia in linea con quanto sostiene eticamente una sociologia che vuole proporsi come pratica sul campo. Ma per agire in questo senso occorre affrontare un passaggio ulteriore: non avere paura di eccedere dai propri spazi di competenza, sconfinando in campi che , sindemicamente, sono stati disegnati da interessi di chi da sempre si ritiene immune da qualsiasi cambio di paradigma, aggrappandosi in un modo che ora in modo più chiaro si rivela essere imbarazzante, alla supposta esclusività del proprio intervento professionale. In altri termini un esercito di professionisti schierati in difesa dell’ordine, quando è il caos che avanza.
A Minardi, così come ai quei pochi che come lui hanno avuto il coraggio di porsi da anni la questione della professione sociologica partendo da una posizione accademica (mosche bianche), chiedo: perché mai non dovremmo come sociologi occuparci anche dello psichico? Non dovremmo quindi occuparci della parola di chi ora è più colpito da questa sindemia (il micro) in un contesto neo liberista(il macro) che sta amplificando quel suo disagio portandolo all’estremo (la morte, fisica e sociale)? Perché la parola, oltre al corpo che abbiamo affidato alla medicina, dice molto del disagio. E la sociologia non può sottrarsi alla parola dell’altro, costruendo mondi immaginari, progettati e modellati per sé, per parlarsi addosso.
Per attraversare un fenomeno come questa sindemia, bisogna ora rompere quel muro sindemico i cui mattoni sono: il corporativismo, gli ordini professionali, le reputazioni e i privilegi acquisiti in nome dello status quo. Non siamo medici noi sociologi, non ci occupiamo di curare i corpi malati, ma sappiamo (abbiamo le competenze) ascoltare la parola e situarla nel legame sociale entro il quale essa prende vita, corpo e ricostruisce legame.
La paura, ai tempi della sindemia, si affronta con il coraggio di uscire allo scoperto togliendo le maschere che sino ad ora non hanno permesso di respirare aria nuova, oltre a quella filtrata e stantia delle tante aule universitarie fortunatamente sempre meno piene di futuri sociologi senza futuro.