Governare con i poveri

L’espertocrazia al governo sta ridisegnando il nostro immaginario della povertà.

Questa espertocrazia, anche con le omissioni e i silenzi, sta affermando qualcosa su chi maggiormente sta soffrendo dal punto di vista socio-economico questo periodo maledetto. Il potere per affermare e confermare sé stesso, non può non produrre un suo discorso sulla questione sociale e in essa si disegna una immagine ben precisa della povertà. Si potrebbe dire che il povero rappresenta il limite del godimento del ricco e quindi quest’ultimo se ne deve occupare in qualche modo: lo deve nominare all’interno del suo discorso, cooptarlo affermando che in qualche modo se ne sta occupando. Non esiste periodo storico in cui chi detiene il potere non abbia trattato la questione della povertà (Geremek, 1986). Produrre una immagine della povertà e utilizzarla nella comunicazione pubblica (incarnandola in qualcuno che si aiuta pubblicamente o agitandola come fantasma) è qualcosa di necessario al potere per tenere frenate le pulsioni sovversive dei sudditi. Il povero è dunque una figura fondamentale nella retorica discorsiva di chi comanda: si sta al comando con e per i poveri e mai contro di essi. Quindi la rappresentazione della povertà deve essere sempre presente nella comunicazione ridisegnandosi continuamente, prendendo sempre forme diverse a seconda del bisogno contingente di chi comanda.

Le lotte contro il potere, d’altra parte, si giocano anche sul dire la verità sulla povertà.

I poveri, lo dice bene Georg Simmel nel suo celebre saggio del 1906, sono una categoria riconosciuta solo quando rientrano nella condizione di ricevere assistenza da parte di una qualche istituzione. La certificazione di povertà è appannaggio di chi governa e amministra, il quale a sua volta decide come, quando e perché intervenire sui poveri.

Sulla questione della povertà, la settimana scorsa la radio con la quale collaboro mi ha chiesto di commentare alcune interviste a persone di un quartiere di Brescia che usufruiscono di una iniziativa (supportata dalla radio in questione) di distribuzione viveri. Una bella iniziativa, anche perché si identifica come esperienza laica di welfare di comunità. Al telefono ascoltavo le interviste – soprattutto a donne straniere – e di seguito le domande del mio interlocutore, centrate in buona parte sulla questione dell’aumento del numero dei poveri a causa della pandemia. Con sottomano i dati ufficiali (ancora scarsi), ho provato a dire qualcosa che andasse al di là della elencazione di cifre. Per arrivare a dire qualcosa oltre alla tristezza dei dati, ho fatto mente locale: ho ripensato allora a quando all’unità di strada nella quale ero impiegato distribuivo tea e biscotti (oltre a scambiare le siringhe usate) a quelli che vivono in strada con problemi di tossicodipendenza, ho pensato ai tavoli comunali sulla lotta alla povertà ai quali ho partecipato in passato (sempre dentro a reti associative e mai come operatore istituzionale). Ho ripercorso due decenni nei quali sono stato testimone del degrado progressivo dei servizi pubblici dedicati agli ultimi. Anni nei quali ho assistito allo scivolamento della questione povertà dalla gestione pubblica alle fragili braccia degli esternalizzati mal retribuiti (la cooperazione sociale) e poi al suo affidamento nelle mani della carità della chiesa (che però a sua volta attinge ben volentieri a fondi pubblici per operare, quando questi sono disponibili).

E per questo scivolamento verso il basso del servizio pubblico, vediamo oggi i poveri al cospetto della Caritas: perché lì sono stati collocati dal potere. Da lì, da quelle file, prende corpo la rappresentazione mediatica della povertà. Perché la povertà, solo in uno stato compiutamente democratico verrebbe trattata come condizione transitoria nella quale può entrare chiunque di noi (pare incredibile ma io in Scozia ho visto che è possibile farlo). Allora, ho suggerito al telefono, per comprendere lo stato della nostra democrazia occorrerebbe porre attenzione oltre alle file della Caritas, ai servizi pubblici delegati al compito di riportare le persone in condizione di povertà ad una condizione di piena cittadinanza. Su questo monitoraggio mi pare che nessuno in questo periodo dica e faccia nulla. E mi pare grave che nemmeno i sociologi (quelli che hanno la posizione per poterlo fare) in questa fase indaghino come questi servizi – essenziali per la democrazia – hanno affrontato questo periodo pandemico, cercando di capire ad esempio se ad essi arriveranno quelle risorse necessarie per fare un lavoro che riduca le file alla Caritas e per riportare le persone fuori dal circuito della carità: circuito nel quale chi comanda le ha collocate.

Pubblicato da Paolo Patuelli

Sociologo Clinico, Counselor ad Orientamento Psicoanalitico

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