Quelli in fuorigioco

Grazie al sistema VAR all’arbitro di calcio è stato sottratta la responsabilità di convalidare o meno un goal in sospetto fuorigioco. Ci pensa la macchina per lui.

In tanti dentro questa fase pandemica (o meglio, sindemica) stiamo rischiando di andare in fuorigioco. La difesa della squadra avversaria – che chiamerei degli immuni per grazia ricevuta – alza la linea e chi sta dietro la linea può anche autoconvincersi di stare giocando nella partita, ma invece no: il gioco per costui è fermo e anche se ha la palla tra i piedi non gli serve a niente giocarla: è in fuorigioco.

Quando pensi di non essere in fuorigioco continui nella tua azione e non ti sembra vero che stai segnando il tuo goal in tutta tranquillità; anche il portiere non ti sembra un ostacolo difficile da superare perché è fermo davanti a te non ti impedisce di farlo, il tuo goal. Esulti per niente (godi). In psicoanalisi continuare l’azione in quelle condizioni si chiama: coazione a ripetere. In altri termini la coazione a ripetere è il collocarsi all’interno di una gabbia per criceti dove si corre su una ruota rimanendo perennemente nella stessa posizione, consumando se stessi in una corsa inutile.

Nella vita fuori dal campo di calcio, la mia sensazione è che buona parte di quello che gira in rete nei social, stia diventando sempre più il campo della coazione a ripetere per quelli in fuorigioco. E il cui procedere è sostenuto da quell’esultare a vuoto per un like. E se è vero che l’algoritmo della grande VAR (un modo nuovo di chiamare il discorso del Capitalista) sta spostando la linea della difesa limitando la porzione del campo di gioco per tutti fino a rendere la partita nel reale cosa per pochi intimi, dentro alla porzione di campo per quelli in fuorigioco si fa finta di essere immuni e immunizzati dalle disgrazie del precariato, della malattia e dell’incapacità reale ad assumere la postura suggerita dall’algoritmo di essere tutti manager di sé stessi.

Per coloro che non si ritengono immuni – come il sottoscritto – c’è il disagio e un senso di inadeguatezza nel presentarsi nel campo riflesso dove spopolano gli “sconfitti senza saperlo”, i mentitori a se stessi che si incontrano, scontrandosi solo per segnare goal magnifici, ma inutili. Nessuno, o pochi, parlano veramente di come stanno in questo momento devastante: dentro e fuori dai social. Si trattasse del buon vecchio pudore sarebbe cosa positiva e segno che ancora un po’ di amore per se stessi c’è. Ma purtroppo non credo minimamente sia per questo: purtroppo penso si tratti di incapacità a trovare nelle parole dell’altro le tracce di un possibile interlocutore di cui avere fiducia. E così, invece di usare la rete e i social per incontrare e conoscere l’altro, preferiamo all’incontro l’urlo che copre la parola: proprio come quel vaffanculo del giocatore che segna e poi qualcuno gli dice che era in fuorigioco (qualcuno ha visto Insigne abbattere con un calcio un cartellone pubblicitario per il suo goal annullato per fuorigioco?).

E’ sconcertante per me, ma credo per tanti, questa indifferenza alla partita vera – quella del reale – per rifugiarsi nel campo dove la consapevolezza dell’essere fuorigioco è praticamente nulla. E’ triste assistere alla costruzione di un mondo senza dialettica, senza rivolta e dove si andrà in Parlamento per il numero di visualizzazioni ottenute su Youtube e per i likes su Facebook per aver fatto affermazioni che potranno essere disconfermate nell’azione politica nel reale (la sinistra e la sua perversione, la destra che vince per la sua coerenza nel sostenere l’egoismo come pratica di liberazione).

Da lì, nel campo riflesso, qualcuno si chiede perché il nostro presidente del consiglio non è sui social e/o non gliene freghi nulla di esserci (e non c’entra l’età: anche mia madre è su Facebook!). La risposta è semplice: lui è altrove, sta giocando nel campo del reale e questo gli basta e avanza per occupare il tempo delle sue giornate. Altri si chiedono perché tanti politici dell’era avanti Draghi (a.D.) abbiano invece optato di dedicare molto tempo nel calpestare il campo di gioco del virtuale. La risposta è: lo hanno fatto perché è lì che si sta aggregando la massa di quelli finiti in fuorigioco che confidano nell’unico gesto a disposizione che li possa riagganciare al reale: mettere, chissà quando, la croce su una scheda elettorale. Come avvoltoi questi politici a.D. girano sulla testa degli elettori agonizzanti (che fingono un’ottima forma fisica e psichica). che dopo essere stati nuovamente depredati, potranno comodamente ritornare a correre nel campo di gioco. Il campo di quelli finiti in fuorigioco.

Mi chiedo quanto l’adesione al campo riflesso dell’inutile, in senso politico, sia per tanti in fuorigioco una scelta consapevole, voluta e quanto invece sia la risposta più semplice incondizionata, automatica (la coazione a ripetere!).

Siamo testimoni e bersaglio di chi sta sfruttando l’avanzare di una disperazione che se resta scotomizzata e non trova, organizzandosi, uno spazio per una azione nel reale darà ragione ancora a chi la VAR l’ha costruita per sé, facendo finta che sia meglio di un arbitro vero e piazzando l’infernale macchina dove vuole perché ritiene che il campo di gioco gli appartenga.

Concludo questo scritto con una citazione di Miguel Benasayag, tratta dal suo dialogo con Andrea Colamedici, dal titolo: “La responsabilità della rivolta”:

Penso che a questo “magnifico” mondo di algoritmi, al magnifico mondo del transumanesimo, al magnifico mondo dove, come dicono quegli stronzi terribili, il “mondo è il mio terreno di gioco”, c’è da dire: “No, il mondo non è un terreno di gioco, non tutto deve essere possibile.”

Non lasciamo campo libero a chi ci vuole in fuorigioco, mostrandosi come l’unica possibilità. Per fortuna c’è tempo ancora e l’Arbitro non ha ancora fischiato la Fine.

Pubblicato da Paolo Patuelli

Sociologo Clinico, Counselor ad Orientamento Psicoanalitico

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