Chi mangia con la sociologia?

Al presente nell’ambito delle scienze sociali, sia per quanto riguarda la produzione teorica in senso lato, sia per quanto riguarda l’osservazione sul campo, è semplicemente improponibile avviare una ricerca sull’organizzazione del lavoro e sulle possibilità di modificarla entro stabilimenti di grande serie… Come è inimmaginabile riuscire a trovare ancora qualcuno disposto a investire un euro in un’indagine di questo tipo

Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, 2012

Sono passati quasi dieci anni da quando Gallino pronunciava queste parole rispondendo alle domande di Paola Borgna nel testo – intervista La lotta di classe dopo la lotta di classe e le prospettive per l’intervento sociologico sul campo sono le stesse: ovvero scarse, se non nulle.

Le Università possono essere osservate e studiate come luoghi di produzione per sé, per il loro sostentamento, allo stesso modo in cui si studia una qualsiasi realtà aziendale. Nelle aree accademiche dedicate agli studi sociali non sembra – da esterno attento al tema, non credo di potere essere smentito su questo – ci si preoccupi troppo dell’output, ovvero: cosa i laureati faranno dopo la laurea. Non sembra che queste Facoltà vivano con apprensione il tema di quanto il loro operato possa incidere sugli assetti del mondo del lavoro attraverso l’apporto dei laureati che da queste realtà universitarie fuoriescono. In altre parole: la professionalizzazione degli studenti in sociologia e altre scienze umane non è una questione rilevante per chi li forma.

Questo non significa che le facoltà universitarie in studi sociali non siano interessate al mondo produttivo: tutt’altro. Vi sono settori economici che contano che se ne fanno qualcosa di questi luoghi del sapere, soprattutto per la loro capacità di farsi cassa di risonanza e di legittimare in termini di expertise iniziative in campo imprenditoriale. Su temi quali: la responsabilità sociale d’impresa, la progettualità di cambiamenti degli assetti urbanistici e il sostegno ad indirizzi specifici di politica sociale che implicano finanziamenti pubblici e privati di una certa entità, l’Università con le sue Facoltà di studi sociali non si tira indietro.

Al mondo produttivo può dunque interessare il settore sociale dell’accademia (quindi anche la sociologia) quando questo gli è di qualche supporto. Questo non è un male, se portasse qualche beneficio al futuro degli studenti.

Il fatto è che nella programmazione degli studi di queste facoltà – a mio parere – non è posta al centro la questione della professionalizzazione dello studente. E’ triste affermarlo, ma la sensazione è che lo studente di queste discipline sia sempre più ridotto a figura che finanzia attraverso la propria sottoscrizione (l’iscrizione che diventa sottoscrizione) una istituzione (un campo, un’area conoscitiva, un dominio?) nella quale egli trova un riconoscimento temporaneo nel corpo docente e nella comunità studentesca che equivale ad un’accoglienza in termini di identificazione e appartenenza culturale, appagante un immaginario sganciato dalla realtà che gli si presenterà nel futuro, cioè la precarietà. Quindi l’apparato nel quale è inserito l’iscritto, nella sua posizione di base sociale, prevede come nelle forme più false di cooperazione, essenzialmente la raccolta del suo sovvenzionamento (che si somma a quello pubblico di tutti i contribuenti). La realtà aziendale che lui – studente – sta sostenendo, non sta lavorando per lui formandolo come futuro lavoratore: sta lavorando attraverso di lui come erogatore delle risorse che immette nel sistema-azienda iscrivendosi ad essa.

Questa deriva dell’accademia ha forse poco a che fare con il lavoro quotidiano dei tanti docenti stipendiati dagli atenei i quali si occupano (e sono forse totalmente occupati da) di trasmettere agli studenti il loro sapere: ha certamente più a che fare con gli obiettivi posti da chi al governa l’istituzione preoccupandosi in primis dell’acquisizione di rate in denaro e dell’amministrazione dei beni/risorse acquisiti (e successivamente alle scelte da fare quando questi beni devono essere reinvestiti). Se le iscrizioni reggono come numeri, una seria analisi nella quale rientri la questione della professionalizzazione dello studente non è così necessaria, urgente.

Questo sul versante dell’offerta. Infatti si potrebbe rovesciare il discorso affermando che è dalla parte della domanda il problema: ovvero chi si iscrive a certe facoltà non è primariamente interessato a che cosa se ne farà del titolo acquisito, della sua spendibilità nel mondo del lavoro. Quindi perché affrontare la questione?

Il problema è complesso e andrebbe affrontato mettendo al centro il tema della responsabilità delle istituzioni nei confronti delle generazioni future. In questo senso il tema della spendibilità dei titoli universitari nell’ambito delle scienze umane, dovrebbe essere trattato con la stessa urgenza e sensibilità con la quale si tratta la questione della professionalizzazione degli operatori nel campo della sanità.

I sociologi potrebbero (per chi scrive: dovrebbero) occuparsi sul campo, in collaborazione con altre professioni, della salute del corpo sociale nelle sue dimensioni micro, meso e macro. E’ vero che vi sono figure operative che già lo fanno e hanno una formazione sociologica e operano nella dimensione micro (i casi), ovvero gli assistenti sociali, ma il loro impiego nelle organizzazioni – penso ad es. alla sanità – è sempre più burocratizzato e subordinato a programmazioni e progettazioni degli interventi che fanno capo a figure sanitarie (medici dirigenti) e sono discusse all’interno di équipe di lavoro sbilanciate nei numeri verso l’ambito sanitario.

Avendo avuto per un tempo breve la possibilità di insegnare in Università, soggettivamente mi sono posto il problema di che cosa gli studenti che mi stavano ascoltando se ne sarebbero fatti di ciò che gli dicevo. Non solo come persone, ma anche come futuri educatori, nel mio caso specifico. Credo che si possa incominciare anche da lì: da chi ha il privilegio di fare uno dei lavori più belli che è quello di trasmettere non solo sapere, ma anche una competenza che dovrebbe essere spendibile nel futuro di chi li ascolta.

Per la parte più gravosa, la lotta per cambiare l’Università affinché si assuma la responsabilità di professionalizzare i suoi iscritti, è cosa che dovrebbe coinvolgere tutti, ma soprattutto interessare e preoccupare gli studenti (e le loro famiglie).

Pubblicato da Paolo Patuelli

Sociologo Clinico, Counselor ad Orientamento Psicoanalitico

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