Contro il carcere

Qualche anno fa, quando lavoravo presso un SerT (servizio per le tossicodipendenze) mi è capitato più volte di entrare in carcere. Ma se oggi dovessi dire che il carcere lo conosco direi una grossa bugia. Del carcere non ne so molto. Non ho mai passato giorni dentro una cella con altre persone e non ho mai guadagnato lo stipendio timbrando un cartellino all’ingresso di un penitenziario Quei tanti, come me, che da persone libere hanno sperimentato la spiacevole sensazione di sentire i chiavistelli che si chiudono dietro la schiena al proprio passaggio sono – o dovrebbero essere – consapevoli che quella sensazione dura poco, qualche ora al massimo: giusto il tempo per il colloquio con il detenuto.

In tanti oggi parlano di quanto avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Giornalisti, intellettuali, politici e attivisti. Sicuramente ne parlano con cognizione di causa: rispetto alla causa che difendono. I loro discorsi filano, la logica che li costruisce è impeccabile e sono discorsi non solo giusti, ma necessari. La loro causa è in buona parte connessa alla realtà, pur mancando – per forza di cose – di qualcosa: ovvero della vita quotidiana vissuta dentro il carcere.

Rimane sempre uno scarto tra i discorsi sul carcere e la realtà del carcere: non può essere altrimenti per chi è libero. Quando si parla di istituzioni totali c’è sempre nel discorso qualcosa che non torna; anche per chi in carcere (o in manicomio) ci ha vissuto e ne parla in un dopo, da persona libera, rimane sempre qualcosa di non detto, o meglio di indicibile. Senza scomodare Primo Levi o Alda Merini, si potrebbe dire che sulle istituzioni totali in pochi sono stati in grado di trovare le “parole per dirlo” , per dire che cosa sono il carcere, il manicomio e ciò che in essi si pratica.

Questo scarto forse si annullerebbe se si avviasse un percorso serio e condiviso per eliminare sia le carceri e sia i manicomi. Non vedo altre strade. Allo stesso tempo sono consapevole che questo obiettivo non rientra nei programmi di questa società. Il carcere e il manicomio, evidentemente, hanno ancora una funzione per gli Stati nazionali che li hanno istituiti e a tanti cittadini di questi Stati sta bene così.

A coloro che in questi giorni si stanno cimentando nel discorso sulle violenze in carcere chiederei: siete contro o a favore dell’abolizione del carcere? Non dico domani, ma in prospettiva. Eludendo la domanda, troppo impegnativa e sicuramente compromettente come questione sulla quale esporsi, l’esame di quanto accaduto non può che essere ricondotto nell’alveo del diritto, della legge. Nel caso specifico la caduta, spesso involontaria per i più impegnati, è sul tema di quanto tramite nuove leggi si possa fare per umanizzare il carcere. Così facendo si evita la domanda (e lo sguardo analitico e clinico) di che cosa diventano gli uomini che condividono gli spazi di un carcere. Non l’Uomo, ma gli uomini: nello specifico delle singola soggettività che in quegli spazi abita, lavora, vive.

Il fatto è che quanto è accaduto dimostra quanto, nella pratica, dentro il carcere possa diventare piccola cosa la questione della legge rispetto alla forza di quelle “leggi di convivenza” che governano i corpi di chi in quelle istituzioni totali ci vive. Quella forza (della quotidianità) è la premessa della violenza, è il legame tra il carnefice e la vittima. Di quelle “leggi di convivenza” non si parla: troppo complicato. Su di esse si abbozzano discorsi pubblici edulcorati nei toni e si preferisce che su quanto accade nel retroscena (nel senso di Erving Goffman) di certi istituzioni siano i film e le serie tv a parlarne. Portare il retroscena sul palcoscenico ha certamente una funzione catartica e alleggerisce la coscienza collettiva: ma non risolve il problema. E il problema è s-legare quel vincolo di forza all’interno del quale è stata possibile quella violenza e rimane tuttora in tante carceri qualcosa di possibile. Basterà perché questo accada arrestare qualche secondino? E licenziare qualche funzionario? Non lo so.

Non basta rifarsi alla lezione foucaultiana e basagliana di fronte a quanto accade in certe istituzioni totali, impugnandola come se fosse uno strumento che scardina la realtà. Quanto è accaduto nel carcere di S.M. Capua Vetere non è fantascienza o il retaggio culturale di qualcuno che vive in una società altra, lontana nel tempo e molto diversa da quella evidentemente così avanzata e inclusiva nella quale viviamo oggi. Quanto è accaduto lì, penso sia cosa molto concreta e che ci riguarda tutti: non come futuri spettatori di un nuovo film di qualche giovane regista con l’ambizione del difensore dei diritti umani. Occorre però fare uno sforzo individuale per entrare nel retroscena delle istituzioni totali per smontarne un’impalcatura il cui sostegno è la nostra indifferenza (la delega) e se non si fa questa operazione, il rischio è di farne di questo retroscena semplicemente quella parte invisibile, ma necessaria, di uno spettacolo che deve continuare affinché in tanti ne possano godere come spettatori e per coloro che trasformano la realtà in fiction per nutrire immaginari sensibili al tema.

I piani dell’analisi sono molteplici, ma ad ognuno la responsabilità di ciò che afferma dalla posizione che ricopre.

Pubblicato da Paolo Patuelli

Sociologo Clinico, Counselor ad Orientamento Psicoanalitico

Una opinione su "Contro il carcere"

  1. Finalmente riesco a commentare! (Alla fine non riuscivo a farlo perchè ero dal telefono, ed era colpa del mio telefono…)
    Ho apprezzato questo articolo, davvero molto. Per rispondere alla domanda, se sono favorevole al carcere o meno, la risposta è “No, non sono favorevole al carcere, ma come faccio a non essere favorevole al carcere?”. Nel senso, ormai avrò ripetuto fino alla nausea quanto (sebbene io non abbia ne un’esperienza da detenuta, né un ‘esperienza da volontaria o operatrice all’interno di un carcere), che la natura stessa del carcere è sbagliata. Dovrei essere imparziale e cercare di non dare giudizi per “deontologia”, ma non credo di essere ancora così idonea a farlo su certe tematiche. La modalità con cui opera il carcere, è sbagliata! è puramente punitiva. “Hai commesso un reato, adesso vai in prigione e paghi per il tuo reato” e una punizione per i reati e non dovrebbe funzionare così. Ci sono fior fior di psicologi e criminologi che hanno già spiegato questa cosa, il carcere deve avere per poter funzionare una funzione rieducativa, dovrebbero lavorarci al suo interno persone altamente qualificate per gli “utenti” che ci sono dentro per cercare di rieducare il detenuto per poi fare in modo che possa essere rilasciato nella società.
    Che già “essere rilasciato nella società” si apre un mondo perchè non è che la società sia messa poi così bene.
    Volevo scrivere un commento bello, delineato e con un filo logico ben definito, ma la verità è che è un casino, sia dentro che fuori dal carcere. Un detenuto esce e non trova lavoro nemmeno come operaio perchè i pregiudizi arrivano prima e allora finisce a fare quello che faceva prima.
    Alcuni detenuti a volte sono felici di tornare in prigione perchè lì almeno “hanno qualcosa”, escono che non hanno più niente.
    E nella mia testa già sento le parole dei soliti “e quelli che hanno stuprato? i pedofili? gli omicidi? i mafiosi?”
    E io mi chiedo gli psichiatri, gli psicologi, i sessuologi, i criminologi dove sono? sono loro che si dovrebbero occupare di questi profili? (e lo dico da vittima di uno di questi profili).
    Il carcere, così com’è non aiuta, un ragazzino per una cazzata che ha fatto a 19 anni esce a 25 e poi davvero diventa un delinquente perchè non ha nessuno che lo sostiene.
    E non voglio parlare di quello che succede nelle carceri del sud italia. (io sono siciliana).
    Tempo fa avevo letto che in un paese nel nord europa se un detenuto tenta di fuggire dal carcere non viene punito e non è considerato un reato, perchè la ricerca della libertà è considerato un bisogno primario dell’uomo e chi quindi considerato normale che cercheranno di scappare.
    La considero una cosa meravigliosa, per delle menti aperte e capaci di accogliere il diverso e saperci lavorare, noi purtroppo, che siamo un grande paese e potremmo dare molto di più di così, siamo ancora molto indietro, molto indietro.
    Sento di persone che a tavola, parlano come se niente fosse, con una tranquillità disarmante di come le organizzazioni potrebbero organizzarsi per uccidere Putin e (secondo loro) risolvere i conflitti attuali, non capendo che la violenza non può essere fermata con altra violenza perchè genererebbe un circolo vizioso perverso, ma sono convinti di essere nel giusto, e quindi, tra un sorso d’acqua e una forchettata di pasta, si passano consigli su come ammazzare una persona, dimenticandosi cosa è successo quando l’ultima volta che qualcosa ha avuto l’idea di uccidere una persona poi ha sterminato masse e masse di persone.
    Figurarsi arrivare a sfiorare pensieri come “evadere non può essere un reato perchè l’essere umano cercherà sempre la libertà”, oppure “il carcere deve essere una struttura rieducativa anche per omicidi, stupratori e pedofili e non punitiva”.
    Sì, io sono ovviamente contro il carcere, ma nell’attuale presente, se subissi un torto e facessi una denuncia che cosa farei? Tu cosa faresti?
    Non siamo pronti.
    A.

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