L’imbroglio culturale del burn out

E’ uscita recentemente un’edizione aggiornata de La società della stanchezza di Byung-Chul Han. Al testo uscito in Italia nel 2012 l’autore ha aggiunto un’appendice con due nuovi scritti: “La società del burn out” e “Tempo solenne”.

Per il tema, che mi sento di inquadrare nell’ambito della clinica del sociale, provo ad esprimere alcune riflessioni sul nuovo scritto di Han sul burn out.

Intanto cos’è “tecnicamente” il burn out. Inquadrato nell’ambito del lavoro nelle organizzazioni si può definire come una sindrome da esaurimento (nervoso, emotivo, fisico) dovuta all’eccesso prolungato di attività, dallo stress dovuto all’accavallarsi di impegni, dalla pressione dei colleghi sul posto di lavoro. Il lavoratore in burn out – dicono i tanti manuali di psicologia del lavoro – perde il controllo di se stesso, aggredisce verbalmente i colleghi e inveisce contro le regole costrittive dell’organizzazione. Per questo chi è “affetto” da questa sindrome necessita di allontanarsi temporaneamente dal lavoro per recuperare, oltre al suo equilibrio psico-fisico, la motivazione stessa al lavoro.

Giuseppe Bonazzi, sociologo autore di molte pubblicazioni sul lavoro nelle organizzazioni, dice a riguardo di chi vive il burn out:

“…le vittime vivono il burn out in modo ambivalente. Da un lato lo sentono come una colpa, una malattia di cui non sono stati capaci di avvertire in tempo i sintomi per evitarla; dall’altro lato un burn out superato è visto come la cicatrice di una ferita riportata in combattimento”

Posizioni, quelle della vittima, del malato e del reduce, che portano a pensare al lavoro come ad un campo di battaglia, un luogo malsano, dove si combatte per qualcosa, contro qualcuno e combattendo si perde, ci si ferisce. Ci si ammala.

Diciamo da subito che Han parla di “società della prestazione”, non parla di lavoro. Non entra quindi nel discorso del burn out con le stesse chiavi della psicologia e della sociologia del lavoro e delle organizzazioni. Aggira l’ostacolo, o meglio, lo abbassa concentrando la sua attenzione sul soggetto di prestazione. Partendo da Kant, con la coscienza e la morale e toccando la psicoanalisi di Freud, definendola nella sua inattualità a sostenere una clinica per i nuovi disagi della tarda modernità, Han inquadra il burn out in un paradosso di cui ognuno, per sé, deve farsene qualcosa. A fare da cornice a questo soggetto prestazionale inoltre non è più la società disciplinare ben inquadrata da Michel Foucault, bensì una società della positività, dove non c’è potere che nega e controlla, ma c’è dovere ed adesione individuale che prevede autocontrollo e flessibilità. In questa società del positivo, il soggetto non più dissociato e alienato è volontariamente isolato ( chiuso nel suo ego) e proiettato in una dimensione di imprenditorialità di se stesso all’interno della quale autorealizzazione ed autodistruzione convivono non lasciandogli vie di uscita dal suo dover essere prestazionale. Il soggetto di prestazione è una sorta di uomo ad una dimensione, quella prestazionale, che potrebbe essere una versione aggiornata di quell’ Uomo proposto da Herbert Marcuse nel suo celebre libro del 1964.

Per farmi comprendere meglio su questo punto riprendo quanto afferma Federico Chicchi in un breve e interessante saggio all’interno del testo Disagiotopia (F. Andreola, a cura di, 2020) dal titolo “Contro la società della prestazione. Per una sintomatologia del capitalismo contemporaneo”, commentando lo scritto di Han sul burn out:

Il nuovo imperativo sociale, fondato sulla prestazione individuale, assume una determinazione societaria concreta attraverso la generalizzazione della forma impresa come forma soggettiva adeguata alle esigenze produttive del capitalismo postindustriale. I soggetti di prestazione , in altre parole, sono e devono diventare imprenditori di sé stessi.

Quindi, per andare avanti nella riflessione sull’attualità del burn out seguendo la prospettiva di Han, bisogna inquadrare questa sindrome dentro una dimensione operativa di “autosfruttamento volontario”: come lo stesso filosofo coreano suggerisce.

Non c’è lo sfruttatore, o almeno non appare sulla scena come imprenditore/padrone dei mezzi di produzione. C’è solo l’ambizione, l’aspettativa individuale di farcela da soli, a tutti i costi. Sino al punto di “bruciarsi” se necessario. Seppur inquadrati in organizzazioni (ma, a questo punto ci sarebbe da chiedersi che cosa sono queste “organizzazioni”?) agiamo tutti come liberi performers confidando nell’essere più prestazionali degli altri. Ci misuriamo (… ce lo misuriamo) con un ideale che si presenta come no limits e per questo pare saremo destinati a buttarci prima o poi tutti da una sorta di rupe Tarpea che non riusciamo, immersi come siamo nel compito, nemmeno a scorgere all’orizzonte. Limitati dalla nostra corporeità e da una psiche che non può ripararsi continuamente attraverso i cerotti della farmacologia, procediamo in fila indiana passando, prima del salto, anche da questa dimensione che Han, allo stesso modo di tanti altri (e qui è il suo limite!) chiama: burn out.

Che vi siano possibilità di interpretare questo burn out in un modo differente, affinché chi ne è “affetto” non si chiuda nell’isolamento di una colpa, del fallimento di sé, è un tema sul quale dovremmo discutere e confrontarci in tanti. Ma non come vuole questo sistema capitalistico, ovvero come un grande gruppo di auto mutuo aiuto. Piuttosto come entità che problematizza e ri-politicizza la questione del disagio soggettivo. Perché il burn out è un imbroglio culturale e linguistico che nasce nell’ideologia neoliberista come diagnosi contro i non-adatti ed è una diagnosi alla quale non dovremmo aderire così facilmente quando sul posto di lavoro chi detiene il potere (il portafoglio) ce la attribuisce per disfarsi di un elemento (a lui e al sistema che sostiene) disfunzionale.

In altri termini, non si esce dalla società della prestazione da soli. Si tratta di salvare noi stessi come soggetti sociali e politici, al di là di coloro che necessitano di noi solamente come progetti utili alla loro causa.

Pubblicato da Paolo Patuelli

Sociologo Clinico, Counselor ad Orientamento Psicoanalitico

Una opinione su "L’imbroglio culturale del burn out"

  1. Mi stupisco io stesso, che dal fondo della mia città, provincia che credevo dolce ed è invece solo insipida, mi debba ergere stancamente a chiosare il prode Patuelli, che imperterrito scrive nel suo solitario Blog su intellettuali di fama mondiale, e oggi tocca al coreano Byung-Chul Han e alla sua definizione di burn-out.
    Lo faccio perché su questo tema che per vari anni ho studiato e scritto, in riferimento soprattutto alle professioni sociali ed educative. Direi dal 1988. Il primo intervento di una certa levatura fu pubblicato addirittura su “Inchiesta”, per chi ricorda questa Rivista.
    Tutto il mio o il nostro, ma eravamo in pochi, davvero ad occuparcene, argomentare di allora era di tutt’alto indirizzo, rispetto a quello che sembra esse il burn-out di Byung-Chul Han. Si diceva: “Datore di lavoro se in alcuni contesti non puoi che utilizzare personale motivato e qualificato, se sottoponi suddetto personale a condizioni di lavoro od organizzative “cattive”, “stupide” esso risponderà assumendo comportamenti autodistruttivi, che corroderanno le sue capacità e le possibilità che esso ha di relazioni positivamente con l’utenza: Si brucerà, appunto.
    Mi sembrava un programma molto concreto, olivettiano direi. Implicava un’alleanza fra datori di lavoro e professionisti (sociologi, psicoanalisti psicologi ecc) e lavoratori qualificati al fine di migliorare la qualità del lavoro e soprattutto la prestazione da erogare all’utenza, che erano per lo più appartenenti a categorie “deboli”.
    Il datore di lavoro era ritenuto in quell’elaborazione il primo responsabile, nel bene e nel male, del burn-out dei propri dipendenti, ma il discorso sarebbe troppo lungo da fare qui. Nel male, in quanto lo determina, nel bene, se riesce ad alleviarlo, con gli opportuni interventi
    Eppure oggi non sembra più così e il “discorso della colpa” si è spostato sulle ambizioni del dipendente/ lavoratore che si “brucia” per troppa dedizione.
    Per quel che posso osservare io, nelle imprese produttive italiane, l’essere imprenditori di se stessi ancor oggi è una dolorosa necessità, in quanto e in modo inspiegabile, si fa per dire, in alcune di esse le performance dei dirigenti, dei quadri e del personale tutto sono misurate e i risultati esposti in graduatorie e se per troppi mesi, anche in modo giustificato, finisci negli ultimi posti, si sa per certo cosa ti attende. Condizione non solo inspiegabile, ma incomprensibile per un professore universitario italiano … .

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