Doppio zero è una tipologia di farina, ma è anche un sito ormai conosciuto da tanti che – in cerca di risposte su internet rispetto al senso delle loro giornate passate on line – trovano spunti interessanti per fare sera.
Il parterre di questa rivista on line è veramente ricco. Nomi di un certo livello: ce n’è per tutti i gusti, compreso per i gusti del sottoscritto. D’altronde con la farina 00 si possono fare infinite ricette e Doppio zero ogni giorno sforna articoli per tutti i palati, anche per allergici e celiaci del web.
Capita anche a me di essere nella rete per dire qualcosa sul web e – per vedere cosa gira nei siti più cliccati – di dare un’occhiata alla vetrina di Doppio zero . Da profano e da novello scribacchino di un blog per pochi intimi, rimango a volte un po’ infastidito da una certa categoria che occupa ampio spazio nei grandi silos del “culturale”. La categoria di cui parlo è quella dei recensori di libri. Capisco che siano necessari come mediatori nel grande mercato editoriale, ma a volte nei loro scritti noto un eccesso, come un desiderio di prevaricare il testo che vorrebbero promuovere o stroncare.
Nel caso di Doppio zero – per alcuni di loro – mi verrebbe da coniare il termine di re-censori. Re, perché sono blasonati e rispettati stando in un sito così importante. Censori, perché con le loro critiche non accompagnano il lettore ad avvicinarsi ad un testo, ma ne annientano la carica erotica, non mostrando nel loro censire le incertezze, i dubbi, agendo invece con l’a priori di chi sta (o vorrebbe stare) in cattedra.
L’atteggiamento del re-censore è quello di colui che oltre a scrivere del libro che ha letto, si avventura, come avesse il bisogno di controllarne l’agire, nell’analisi del potenziale lettore di quel testo e lì, forse senza accorgersene, scivola dalla recensione alla censura.
Di solito, su questa rivista, leggo gli scritti di qualche accademico della grande prateria dell’anti-capitalismo che considero più “giusto”, ovvero quello di chi si pone oltre alla questione dello studio, quello di una sorta di militanza. Spesso leggo di quella categoria che ha studiato il lavoro degli altri stando attento che costui abbia però riflettuto precedentemente sul suo di lavoro. Perché è importante per me che il recensore parta dalla consapevolezza che “gli altri” di cui egli parla, lavorano spesso in situazioni nelle quali non gli è permesso di esprimersi in alcun modo (se non a volte con la mediazione sindacale), oppure di ciò che fanno non ne sanno scrivere, ma i libri però li leggono. Quello riescono a fare per il tempo che hanno disponibile: leggere.
Per fare un esempio e farmi capire meglio, vorrei riprendere qui un articolo appena sfornato da Tiziano Bonini che, recensendo un libro dal titolo “Changemakers” di A. Arvidsson, individua subito che questo libro è “agile e scritto per essere accessibile al famoso pubblico al di fuori dell’accademia”. Ecco, perché usare queste espressioni del tipo: “famoso pubblico al di fuori dell’accademia”? Che cosa vuol dire?
Già solo questo incipit infastidisce un doppio zerista occasionale come me, anche perché mi trovo davanti ad un selezionatore di pubblico, ad una discriminazione attraverso la creazione di target: c’è il pubblico accademico e quello non accademico. E io sono, citando il saggista Remo Bassetti (2008), contro il target. Inserito in questo ipotetico target, evidentemente necessito di essere aiutato quando il discorso si fa complesso da un interprete, in questo caso Bonini? E’ lui, il re-censore, che può aiutarmi a superare questo mio handicap. Per costui esiste forse un lettore “extra mondo dei colti” che va educato. Da gente come lui. Mi pare un eccesso di analisi che sfocia in una cattiva pedagogia, o almeno la sento come una scelta infelice di parole, soprattutto se l’intenzione è quella di avvicinare qualcuno alla lettura di un testo.
Di mio, so che non potrei disquisire ad una conferenza sugli altissimi contenuti che seguono questo incipit dell’articolo di Bonini: non ho i titoli e le nozioni per farlo e nemmeno sinceramente la voglia. Però, non posso impedirmi di interpretare ciò che scrive, valutando se mi piace o no. E così mi sento di segnalare quello che considero un secondo “scivolone” di Bonini. Un inciampo di cui non comprendo il senso. Ed è un passaggio nel quale l’autore tira fuori il nome di Mark Fisher, autore del famoso libro “Realismo capitalista”. Scrive Bonini:
Mentre in Italia tutti i critici del capitalismo si riducono a imbracciare Mark Fisher per uscirne annichiliti (ma anche compiaciuti) dalla prospettiva di un “realismo capitalista”, una condizione ormai naturalizzata e astorica da cui non si può sfuggire, Arvidsson (come in passato avevano già fatto Polanyi e Arrighi) restituisce al capitalismo una dimensione storica che ne enfatizza le cicliche fasi di espansione, dominio e declino.
Fisher è il giocattolo dei critici superficiali del capitalismo, il prodotto perfetto per compiacere il carattere crepuscolare dei giovani lavoratori cognitivi figli dei ceti medio-alti frustrati dalla crisi economica.
Il povero Fisher – pace all’anima sua – è secondo l’autore dell’articolo un “prodotto” e nello specifico un “giocattolo” per lettori superficiali (il “famoso pubblico al di fuori dell’accademia”). Un pubblico, secondo lui, evidentemente fatto di ingenui e incolti consumatori di libri in balia di lettori-critici un po’ più furbi che, approfittando dell’annichilimento prodotto dentro il concetto di “realismo capitalista”, usano (in che senso?) il pensiero di Fisher per compiacere “giovani lavoratori cognitivi figli dei ceti medio-alti frustrati dalla crisi economica”. I giovani lavoratori, viene da dire, assidui lettori di Doppio zero e dei libri che lì sono recensiti.
Cosa avrebbe detto Fisher sul fatto che qualcuno ora stia usando i suoi scritti per compiacere qualcun’altro? Credo niente. Aveva altro a cui pensare (vedi la sua raccolta di scritti: “Il nostro desiderio è senza nome”, uscita a gennaio di quest’anno).
Tiziano Bonini, a mio parere, usa le sue sensazioni sull’uso improprio del pensiero di Fisher per criticare chi non legge come si dovrebbe le cose che legge e poi, non autorizzato (da chi?), si assume il diritto di parlarne “impropriamente” a qualcun’altro. Per lui non va bene, non si fa. Qualcuno intervenga e fermi questi “critici superficiali del capitalismo”.
Io credo che ognuno, fortunatamente, possa permettersi invece di leggere e interpretare ciò che legge come gli pare. E di quello che se ne fa, dopo aver letto e interpretato, è semplicemente affar suo (ne è responsabile).
Capisco che sia faticoso per gli iper-colti accettare che la cultura (gli usi e i costumi) viaggi per i fatti suoi e non sia recintabile da nessuno, ma il mondo è questo qui e l’ignoranza (l’altrui e la propria…) non si combatte evitandola o censurandola. L’ignoranza si affronta sul campo, nella relazione con l’altro.
Vedo sempre più intelligenze (e Bonini intelligente lo è sicuramente) spostarsi in un mondo di carta e vestire i panni di re- censori impegnati in guerre di carta dove i loro corpi lavorati dal lavoro non ci sono più. Questi loro corpi si fanno sempre più rarefatti e vagano come fantasmi nella polvere farinosa lanciando strali contro un capitalismo che per loro è vero solo se è come dicono loro: cioè di carta.
Mi manca Fisher e la sua vitalità. Le sue analisi hanno la forza di mobilitare i corpi.
Riposi in pace.