Domenica 2 agosto 2020.
Uscire di casa alle 9.45 e fare mente locale. Non ho letto i giornali e non so bene come sia il programma della mattinata di questo quarantesimo giorno della memoria, ma ho una sola certezza: come sempre ci si trova in Piazzale Medaglie d’Oro. Non può che essere lì il ritrovo e lì mi devo dirigere con lo scooter.
Mi avvicino alla stazione e, ancora un po’ stordito dal caldo e da una notte sudata, parcheggio. Mi accorgo che non c’è un dispiegamento di forze imponente come dovrebbe esserci in questo anniversario. Quarant’anni pesano e la città non si è svuotata quest’anno come gli anni scorsi. Non sento voci amplificate per i soliti discorsi istituzionali (ai quali poi segue sempre qualche fischio). Scorgo in lontananza un corteo con striscioni e bandiere che conosco e sono certo che dietro di loro ci sono persone che conosco, amici. Ma niente gonfaloni, niente sindaci e amministratori locali con fasce tricolori. Lo Stato lì non c’è. Com’è possibile?
Poi capisco. Le istituzioni, piccole e grandi, non ci sono lì perché sono altrove. Scopro, chiedendo in giro, che sono in Piazza Maggiore: lì no. Lì ci sono quelli di sempre: quelli che come me, il due agosto vanno in stazione.
E vanno in stazione il due agosto perché andandoci incontrano qualcosa non solo fuori nel piazzale Medaglie d’Oro (gli altri, i compagni, gli amici), ma soprattutto incontrano e ascoltano qualcosa che si muove dentro, nella pancia, nella testa. Compiono un gesto che ha la normalità della quotidianità di chi fa il pendolare, di chi va a prendere il treno per andare in vacanza, di chi va a prendere l’amico, la fidanzata o il parente che arriva a Bologna. Compiono – quelli che il due agosto vanno in stazione – un’azione del tutto simile nei gesti e nei modi a quella di quelle persone che il due agosto 1980 andavano in stazione a fare una cosa banale, normale. Andare in stazione. Per quello si va in stazione il due agosto. Ci si va perché insieme – lì in stazione – si può sentire, dentro di sé e negli sguardi di chi ti sta vicino, quella normalità spezzarsi, diventare una fitta dentro. Per questo si va in stazione il due agosto.
Quest’anno le istituzioni si sono perse questo. Hanno preferito la celebrazione in smart working alla realtà del walking to the station.
Che la giustificazione a non esserci in stazione domenica, per gli istituzionali, sia il COVID-19 con le sue regole, non regge. No. Perché domenica in stazione, noi cittadini, eravamo in tanti (in tv non ci siamo andati però e allora in tanti non lo sapete) e i vigili urbani presenti non hanno intimato a nessuno di non creare assembramenti o di distanziarci.
P.S. per gli istituzionali: non ho tessere sindacali e di partito in tasca.
Si apre un mondo in poche parole. Paul Faure (1916-2007) in La vita quotidiana in Grecia ai tempi della guerra di Troia (ed. org. 1994) scrive: “Ciò che avveniva dentro le fortificazioni non si poteva definire come politica. La polis, la città greca, con la sua piazza pubblica e le discussioni dei cittadini non è ancora nata …. . Egisto e Clitennestra uccidono Cassandra, la sacerdotessa, e Agamennone, il re, nella stanza più nascosta del palazzo”.
Seguiamo K. Marx per comprendere che Hegel nella Fenomenologia dello spirito, nella lotta Servo/ Padrone, racconta la vittoria Settecentesca della Borghesia sull’Aristocrazia, ma c’era stato qualcosa prima. È nella Piazza greca che comincia a svilupparsi e ad assumere la coscienza, che il servo del Palazzo non aveva e non ha ancora, il ceto antagonista all’Aristocrazia: ilPopolo, i lawos, la massa regolarmente armata.
Prima e dopo la nascita del popolo, che rumoreggia nella Piazza, accanto ai servi/ schiavi del Palazzo, non affrancabili e che neppure desiderano affrancarsi, troviamo anche l’Eroe. Il futuro campione, è un uomo che deve farsi conoscere. Di origini oscure, egli è, come Teseo al suo arrivo ad Atene, venuto da non si sa dove: “uno straniero e uno sconosciuto”. O come Edipo “dai piedi gonfi” per la denutrizione, un bambino abbandonato e scoperto per caso. Ma questa è un’altra storia, visto che l’Eroe è solo l’uomo che sfida il suo destino e che è destinato a perire, a rappresentare la via solitaria da sempre percorsa, ma sempre inutile.
Passano circa 100 anni perché Sganarello, Servo di Palazzo (Molière, Don Giovanni e il convitato di pietra – 1665), si trasformi nel Barbiere di Siviglia, Servo della Piazza: “Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono”, nell’artigiano che collabora col Conte di Almaviva per denaro, banalmente per la “Idea di quel metallo”, di cui canta con G. Rossini (1816), ma citando l’altro suo collega, descritto da Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais (1775).
Solo con la dialettica nella Piazza, del popolo minuto, degli artigiani non artisti, dei piccoli commercianti, nasce il soggetto antagonista all’Aristocrazia. Già presente nella città greca, la sua lotta si protrasse per secoli fino a portare i Re nella Piazza per la loro decapitazione. Tanti re furono uccisi da altri re, tanti altri costretti in pastoie dall’Aristocrazia, Luigi Capeto o XVI di Francia (1793) venne Giustiziato nella Piazza e fu la svolta.
Poi il popolo entrò nel Palazzo, ma ci sarà sempre un altro popolo nella Piazza, mediatica o no. Quello che avviene nel Palazzo sarà sempre oscuro, quello che si manifesta nella Piazza sarà sempre confuso, preso nella divergenza delle opinioni, ma sempre in divenire.
Chi è nel Palazzo non deve fare più nulla, gli altri: i servi fanno per lui. Piazza e Palazzo, restano antinomici. Il Palazzo, teme la Piazza, la deve contenere e controllare, ma è destinato a riempirsi di altri pretendenti, che vengono dalla Piazza.
Gli Eroi moderni osservano, scrivono, non parlano neppure più: non sono né del Palazzo, né della Piazza. Esclusi se consapevoli, a rivivere la nostalgia del tempo passato gli altri.
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