La fabbrica delle donne

C’è stato un periodo, breve, durante il quale ho lavorato in una azienda dove sono impiegate in buona parte le donne. E’ stato pochi anni fa.

Un lavoro in linea, come si dice in gergo. Dove sono le macchine a dettare i ritmi.

Di quel periodo ricordo l’accoglienza da parte delle colleghe, per me che per vent’anni avevo fatto l’educatore e quell’ambiente mi era estraneo. Un’accoglienza cordiale, circoscritta nei tempi, senza troppe parole e nei modi dettati dall’impegno che era richiesto a tutte in quel momento del mio arrivo lì. Il compito da svolgere era abbastanza semplice, ma i ritmi di produzione in quella fabbrica erano elevati e la comunicazione avveniva in modo frammentato e confuso. Mentre si confezionavano imballaggi, qualche frase: “Come ti chiami?”, “Sei interinale?”. Una frase ricordo mi aveva colpito da subito: “Anche quando finisci una cosa, non stare fermo: fai vedere che stai facendo qualcosa. Butta via i cartoni, sposta i bancali, insomma fai vedere che non stai fermo. Ti conviene…”. Ascoltando quella frase avevo compreso subito che il clima interno non era dei migliori. Per mia inclinazione e perché da quell’esperienza volevo prendere il più possibile, ho cercato di ascoltare molti racconti da quelle donne, in quel momento mie colleghe, per capire “come si stava lì dentro”. Narrazioni che ho poi incrociato con la mia osservazione e con le mie sensazioni rilevate stando lì come lavoratore interinale.

La mia esperienza professionale, prima di entrare lì, era di un lavoro che ha sempre comportato un genere di fatica differente da quello richiesto in una fabbrica dove è soprattutto il corpo, sulla carta, ad essere messo alla prova (ma siamo sicuri che sia solo così?). Quando ho detto alle mie colleghe quale era stato il mio lavoro, ricordo che molte avevano affermato che non lo avrebbero mai fatto: troppo faticoso occuparsi dei problemi degli altri. Avevo risposto loro che se è vero che si tratta di stress differenti, vi era sempre però un punto in comune: il dover avere a che fare entrambi con la relazione umana.
Se l’ambito del sociale viene rappresentato dall’esterno (nella fabbrica) come luogo della fatica del dover stare in presenza di un disagio conclamato (il tossicodipendente, il malato mentale, il disabile, ecc…) di cui prendersi cura, nella fabbrica la presenza di un disagio si manifesta nel suo essere o un problema da evitare (un collega da isolare) o qualche cosa da contrastare nel suo essere disfunzionale. Questo evitamento, o contrasto rispetto al disagio che l’altro porta, produce una fatica differente rispetto a quella vissuta da chi affronta il disagio nella consapevolezza di doversene occupare in qualche modo in termini professionali.


Tornando all’esperienza in fabbrica, lì ho ascoltato racconti che mi hanno lasciato dei segni dentro. I racconti delle donne in fabbrica. Ad esempio un segno me l’ha lasciato l’aver sentito di lavoratrici con disturbi nervosi che avevano preferito non certificare il loro stato per timore di essere licenziate. Forse perché ho un certo occhio “professionale” non era stato per me difficile notare poi alcune lavoratrici durante la pausa pranzo ingerire psicofarmaci. Ricordo di una lavoratrice, ancora giovane, ma sciupata nel volto e nel fisico, vagare tra le linee di produzione con uno sguardo perso per poi posizionarsi, in modo estemporaneo e non richiesto, nei gruppi di lavoro presso le macchine. Una volta ebbi modo di averla a fianco nello svolgere una mansione semplice e di lei avevo notato lo stato quasi catatonico. Avendo tentato di aprire un dialogo con lei, mi accorsi come nell’interlocuzione non fosse proprio centrata. Quella donna stava lì perché doveva stare lì: la sua era una solitudine sopportata dentro un luogo malato, buono solo per portare a casa uno stipendio. Un’altra lavoratrice, molto dinamica sul posto di lavoro, avendo compreso che avevo una certa capacità ad ascoltare gli altri mi aveva raccontato di aver avuto qualche mese prima degli attacchi di panico e mi chiedeva un parere. Mentre mi raccontava di questo, la cosa che mi stupiva era il suo non attribuire, nemmeno in minima parte, la loro comparsa al suo lavoro e alle modalità con le quali viene svolto quotidianamente. Le avevo fatto notare come non fosse un caso che questi attacchi di panico fossero comparsi proprio durante una vacanza, momento nel quale i gesti automatici e abitudinari di quel tipo di lavoro con le macchine erano momentaneamente interrotti ed il suo cervello (e corpo) poteva permettersi di riprogrammarsi in una nuova modalità.

Mentre ero impegnato ad un compito non con l’uso della macchina, ho potuto dialogare per un tempo prolungato con una lavoratrice la quale mi ha raccontato molto della sua difficoltà nel gestire i tempi familiari, soprattutto rispetto alla possibilità di accudire il figlio di pochi anni. Una situazione di questo genere può essere considerata normale sennonché dopo pochi minuti questa lavoratrice ha cominciato a piangere di fronte al sottoscritto, io, una persona quasi sconosciuta. Quel momento me lo ricordo bene e non si può cancellare.

Ecco, queste sono le donne in fabbrica che ho conosciuto. Ci sono ancora e sono in tante. Per loro e di loro (e con loro!) nessuno parla, dice. Anche le altre donne, quelle che potrebbero, non lo fanno o lo fanno troppo poco: meno di quello che dovrebbero. Nel silenzio generale dei maschi padroni della fabbrica (anche di quella) e fuori da lì, oltre il chiacchiericcio becero delle Barbare D’Urso e quello più infiocchettato delle Concite, loro – per me – sono le donne che da uomo sento più vicine.

W le donne.

Pubblicato da Paolo Patuelli

Sociologo Clinico, Counselor ad Orientamento Psicoanalitico

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