Due sole appaiono le prospettive per leggere l’eccesso al quale siamo sottoposti dai media che governano la narrazione sulla diffusione del coronavirus: la prospettiva medica e quella burocratico/organizzativa. Due sono le posture che identificano l’eccesso che impedisce ad ognuno, qui dove i fatti si svolgono, l’accesso alla ragionevolezza che sarebbe opportuna di fronte a questa emergenza sanitaria: la prima postura è quella del corpo che da sano diviene un possibile corpo contagiato e la seconda è quella del cittadino libero di circolare in cittadino sottoposto a restrizioni della sua mobilità.
La prima chiave di lettura riguarda la medicina che ci parla (corpo fisico) e ad essa si abbina l’eccesso dell’ipocondria; la seconda è la prospettiva che ci governa nel quotidiano stabilendo tempi e modi dei processi organizzativi nei quali siamo immersi (corpo politico) e ad essa si abbina l’eccesso della paranoia.**
Due sovrastrutture, quelle della sanità e dell’amministrazione pubblica, entrambe sottoposte alle regole di una economia di scambio che decide cosa è utile e per chi è utile agire in un modo o in un altro.
Per l’informazione è utile amplificare entrambe le letture per trarne un valore aggiunto in termini di maggiore fruizione da parte del pubblico coinvolto a più livelli (di distanza spaziale in questo caso) nell’emergenza.
Il titolo del tema, stabilito dalle regole del mercato dell’informazione, al quale risponde il mondo dei media è: “narrate dell’emergenza e di coloro che hanno il potere di allontanarla da qui”. Il potere sta in chi si dimostra in grado di allontanare la morte dalla vita.
Partiamo dalla questione dell’emergenza, ossia di quella cosa che emerge in superficie dopo essere (evidentemente) stata una cosa sommersa, nascosta alla vista sotto uno spessore di ansia, fatalismo, indifferenza e sicurezza di sé (sé inteso come io, gruppo di riferimento, appartenenza politica, nazionale, etnica, ecc…).
L’emergenza pur appartenendo alla vita di ognuno al suo nascere (emergere alla vita) e morire, nella molle quotidianità di molti e in certe condizioni storiche che accomunano comunità ampie, è un possibile che riguarda, coinvolge, qualcuno che non siamo noi: l’emergenza è, per queste comunità immuni, il differibile dislocato in un tempo che non pare riguardarle (un impossibile) perché in esse “la vita è adesso”, nell’oggi uguale a domani e a ieri. Questa era fino a pochi giorni fa la condizione stabilita storicamente come comunità e biograficamente come individui.
Se riflettiamo, nella storia dell’umanità, la possibilità di non essere immuni a malattie e a conflitti rappresenta la normalità. Alcuni territori nel globo terrestre (quell’Occidente, entità vaga che comprende parti anche lontane tra loro del mondo pensato da ognuno), tra cui il nostro, godono da un tempo che ormai coincide al compimento dell’esistenza di un essere umano dell’immunità da epidemie e dell’assenza di conflitti bellici. La speranza di vivere una vita in pace senza conflitti e malattie è da noi diventata una sorta di certezza. Perché ciò sia accaduto sino ai giorni nostri è qualcosa legato a ragioni complesse che hanno a che fare con lo sviluppo della scienza medica e con pratiche di negoziazione politica efficaci (nel bene e nel male..). Malattie e guerre esistono, ma semplicemente si sono dislocate in un altrove che poco intacca il nostro corpo fisico e politico; di epidemie e conflitti da tempo abbiamo potuto per decenni disinteressarcene, sviluppando una modalità interpretativa, una chiave di lettura dei fatti che si svolgono altrove che si può definire umanitaria.
Ora, in queste settimane, non siamo più di fronte ad un oggetto da interpretare in quanto collocato in un altrove, ma viviamo uno spiazzamento dovuto al fatto che l’altrove è qui e quegli oggetti da interpretare siamo diventati noi. E siamo quindi noi ad essere soggetti (assoggettati) a quelle modalità di interpretazione di un’emergenza che, essendo situata fuori dai confini che ci appartengono, abbiamo sempre esperito con distacco e che invece ora che ci riguarda non possiamo più leggere, oggettivamente, nella solita chiave umanitaria. In questa fase di spiazzamento siamo spinti da chi ha il potere a ri-collocarci nei confini della fiducia nell’altro, e questo altro è rappresentato dalle istituzioni alle quali abbiamo delegato (più o meno consapevolmente) la responsabilità dei nostri corpi (fisici e politici).
A noi ora, soggettivamente, spetta il compito di governare gli eccessi guardandoci allo specchio nelle nostre ipocondrie e nelle nostre paranoie.
*Questo testo introduce il ciclo di trasmissioni radio de “Il disagio nella civiltà” dedicate all’emergenza coronavirus in onda in questo periodo su Radio Onda d’Urto e scaricabili al sito: http://disagio.radiondadurto.org
**Sul tema suggerisco la lettura del testo: M.Revelli, S.Forti, a cura di (2007), Paranoia e politica, Bollati Boringhieri, Torino
Discorso molto interessante, ma sembra confondere il comportamento individuale, con quello collettivo, che non è solo la somma di quelli individuali. L’emergenza, di cui tu dici, nasce dalla precisa volontà dei Capi di rendere la Vita quotidiana dei loro Seguaci, preoccupante, in modo che essi si riuniscano “a corte” attorno a loro. Rileggere “1984”. Purtroppo il seguace oltre a questo innesca una sua lotta personale con l’altro seguace, tanto che, quanto la massaia di Voghera, ma anche quella di Forlì, quando nei momenti di crisi va al supermercato a riempire il carrello di prodotti in scatola o addirittura surgelati, lo fa non solo per assicurare sostentamento ai propri familiari, ma per rubare qualcosa ad altre massaie, riportanto il livello di Civiltà a “prima delle politica”, e a poco prima dello Stati di Natura.
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La precisa volontà dei Capi mi rimane insondabile purtroppo. Posso supporre che sia come dici, anzi ipotizzare che sia come dici… ma arrivo solo fino lì. Grazie per il commento
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