Da un po’ di giorni – con la fine dell’estate – mi capita di passeggiare per il centro della città ripopolato dagli studenti fuori sede e da famiglie assetate di saldi di fine stagione.
Ho vissuto per molti anni ignaro di cosa fosse la città in alcune ore del giorno, quelle solitamente da me dedicate al lavoro. Per molto tempo ho attraversato il centro senza viverlo, per la fretta di arrivare al mio infame posto di lavoro (un SerT, uno Sportello Sociale, un Centro Diurno), per dedicarmi a quelli che la città in qualche modo cerca di sputare fuori dai suoi confini (reali e immaginari).
Ora che ho scelto, per stanchezza e per forza, la precarietà e la frammentazione dei miei tempi di lavoro, mi ritrovo a camminare tra le strade di Bologna con uno sguardo nuovo, più distaccato rispetto a quelle sue ingiustizie e contraddizioni che potevo toccare con mano dal mio vecchio osservatorio professionale. Quando lavori nel “sociale” – anche se non lo sai o non vorresti esserlo – sei un militante in difesa delle cause degli ultimi e devi fare attenzione a come muoverti e come parli di ciò che fai. Soprattutto se sei in una città come Bologna che fa dell’accoglienza la sua bandiera istituzionale. Tu operatore del sociale porti questa bandiera. Si dice che se vieni a Bologna sei sempre e comunque welcome: a prescindere. Quindi se qualcuno si sente escluso da Mammabologna, prima di tutto che ragioni tra sé e sé su che cosa sta sbagliando: perché per Lei c’è posto per tutti.
In effetti quando qualcuno è escluso non può essere mai colpa della città. Magari di qualche amministratore disattento sì, ma mai di Mammabologna. Un accomodamento, se non una vera e propria accoglienza la si trova per tutti sempre.
A questo proposito vorrei ora parlare dei casi limite che ho visto nel mio ex-lavoro di cura delle dipendenze: gli spacciatori. Loro, gli spacciatori, sono di certo i più odiati in tutte le città italiane, anche quando si chiamano Bologna.
Ne ho conosciuti tanti in venti anni di lavoro. Ne ho disprezzati tanti e in tanti, all’opposto, ne ho apprezzato dignità, lealtà e coerenza. Da alcuni di loro ho ricevuto minacce silenziose, infamie e male parole; da altri qualche cosa che chiamerei stima e capacità di ascolto. Non posso dire di avere trovato in quella categoria umana delle amicizie. Non è stato possibile. Posso dire però di avere trovato a volte rispetto reciproco.
Ora mi capita, attraversando la città, di incontrare per caso qualcuno di loro. Quelli che il mio lavoro mi ha permesso di “agganciare” (che parole misere che si usano a volte nel lavoro sociale…) e che, in qualche modo, sono entrati nell’orbita dei servizi socio-sanitari. Qualcuno mi saluta e ci si scambia qualche parola di circostanza, magari un caffè. E poi ci sono gli altri, quelli che seppure ti riconoscono fanno finta di non vederti. Da quando non sei più un operatore a loro non servi più a niente. Quando capita di incontrare questi ultimi ti dispiace un po’, perché per quelli tu hai fatto le stesse cose (li hai accolti, come vuole la tradizione bolognese, li hai ascoltati, li hai aiutati in qualche modo) che hai fatto per gli altri, quelli che ti salutano ancora.
A Bologna in questi giorni ho rivisto più volte uno di quelli che non mi salutano più. Sfreccia affannato con la sua bici, probabilmente indaffarato nei suoi soliti affari; non è più giovane e il mercato di questa città è spietato con chi non tiene il passo. Di lui ho sempre apprezzato le poche parole, pensando fosse un segno di pudore e riservatezza e magari invece era semplice disinteresse a parlare con me. Oggi che per questa persona non sono più niente, riesco a cogliere nel suo sguardo – che non incrocia più il mio – una specie di angoscia che ipotizzo sia dovuta all’essere immerso dentro una città che da sempre non lo vuole, ma lo sopporta (e qualche volta lo supporta). In fondo anche lui qui a Bologna ha, in qualche modo, trovato il suo posto. Ad un patto però: che non cambi mai e continui a fare senza disturbare troppo quello che qui ha sempre fatto.
Welcome a Bologna. Sempre.