Da tempo, forse da quando il lavoro sta mancando sempre più, sui giornali appaiono articoli a commento di un dato molto italiano secondo il quale l’80 % circa degli italiani trova lavoro grazie alla sua rete di relazioni. I maligni intendono queste relazioni con il termine secco di “raccomandazioni”, i benevoli le interpretano come il frutto della capacità di ognuno di socializzare il proprio bisogno di un lavoro e di sfruttare la cerchia di conoscenze dentro la quale si vive la quotidianità.
Disfattisti VS ottimisti, moralisti incattiviti VS allegri fatalisti, matusa VS jovanottiani. Come sempre oggi il sociale, che sia lavoro, disagio, privilegio, conflitto, il giornalismo sociologico lo spiega così: le categorie immerse a bagno nell’emotività devono arrivare dritte nella pancia del lettore. I raccomandati non esistono come fatto sociale: sono il frutto di un retro pensiero del moralista incazzato e triste che non sa stare al mondo, un incompetente relazionale che sa solo lamentarsi e che ci gode a sentirsi vittima dell’ingiustizia di quelli che stanno nelle varie massonerie, lobbies, parrocchiette, insomma: di quelli che sono “nel giro giusto”.
Tutto questo spiegato così è contemporaneamente vero e falso: roba buona per tutti i palati. Il sapore (a vostro gusto) glielo date voi facendo a casa vostra i conti di quanti amici avete, di chi siete il figlio, facendo mente locale se avete un amico prete o se tra gli amici di infanzia ce n’è uno che adesso sta in Parlamento. Quelle cose lì, se le avete nel qui ed ora, le potrete chiamare relazioni, ma solo se fanno veramente parte del vostro quotidiano (es.: esci di casa e vai a messa e poi a prendere il caffè con il don di turno, fai volontariato in parrocchia, vai in gita a Lourdes se capita, partecipi alle riunioni di partito…). Ma se quelle cose lì non sono state il vostro pane quotidiano, allora non avete delle relazioni. Quindi avete bisogno di raccomandazioni perché non avete coltivato delle relazioni. Dovete sbattervi perché quei contatti, lontani e sbiaditi, che non avete coltivato diventino tra imbarazzanti forzature, sollecitazioni tra le righe, ecc…, qualcosa che assomigli a delle relazioni: ne avete bisogno. La raccomandazione non serve se avete già le relazioni. Non avete tenuto un’agenda aggiornata sin da piccini con i numeri di tutti quelli che in futuro avrebbero potuto essere i vostri benefattori: peccato. Non avete continuato a coltivare la vita di parrocchia di quando ancora credevate in un qualche dio: peccato. Non avete accettato di ascoltare il vostro compagno di scuola della FGCI che voleva farvi la tessera e poi voi gliela avete stracciata quando ve l’ha lasciata in buchetta pensando di farvi un piacere: peccato.
Oggi scontate questi peccati di superbia: non siete stati pro-attivi verso chi voleva aiutarvi, pensavate di farcela da soli. Avete fatto di testa vostra come se qui, in questo Paese, le cose fossero normalmente gestite da un sociale che un posto ve lo avrebbe tenuto anche se arrivavate in ritardo. Peccato.
Nel 2008, il genio musicale di Bugo, cantante stonato, ma molto intonato rispetto ai tempi che corrono, aveva scritto una canzone che fa così*:
“I miei contatti son sempre gli stessi
Potrò mai averne diversi
Qualcuno che non sappia chi sono
Se nella cassaforte io tengo dell’oro
Fammi entrare per favore
Nel tuo giro giusto…
Ho bisogno di socializzare
Di uscire dal mio guscio…
Io devo uscire dalla mia alienazione
Ti chiedo se mi fai promozione
Una buona parola per conoscere gli altri che
Che mi sembrano sempre più felici di me”
Mi raccomando, ogni volta che ne avete bisogno ascoltatela. E pensate ai vostri peccati.