Educatore,dove sei?

Alcune settimane fa ho vissuto un’esperienza che definirei nostalgica.

In occasione della presentazione di un libro che mi pare trattasse di stress e burn out nel lavoro sociale, testo frutto dell’esperienza di uno sportello di ascolto psicologico, ho avuto l’occasione di ascoltare la parola di quelli che per molti anni sono stati miei colleghi: gli educatori.

Nel clima giustamente incazzoso nel quale si è svolta la serata, dove al tema trattato si legava la rivendicazione di un riconoscimento professionale da parte di qualcuno o qualcosa non bene definito (le cooperative? il comune? la società? i politici?), ho azzardato un intervento. E lì sono stato sopraffatto dalla nostalgia. Più o meno ho sostenuto che ci vorrebbe maggiore consapevolezza dei meccanismi di sfruttamento del lavoratore e il riconoscimento (da parte di chi? dal padrone? e chi è il padrone per loro?) non ce l’avranno mai gli educatori se continuano a parlare come se fossero necessari e insostituibili e non semplicemente una forza lavoro come le altre: operai tra gli operai. Ecco: lì ho sentito in me l’afflato nostalgico del vecchio reduce sostenitore delle battaglie perse.

Un enorme vaffanculo gridato alla cooperazione sociale dei padroncini e dei benefattori con i soldi degli altri.

Finito il mio intervento da reduce fintamente disinteressato perché ormai fuori dai giochi, mi sono rimesso a sedere per ascoltare il dibattito. Dopo qualche minuto, che ci vuole sempre per sgasare l’emozione, ho capito che il mio discorso non poteva essere recepito. Non per scarsa intelligenza della platea, piuttosto per l’impossibilità che qualcuno immerso nel magma liquefatto del suo mestiere possa ascoltare veramente chi quel mestiere ha scelto di non farlo più. Loro quel mestiere lo vogliono fare, gli piace farlo e vogliono un riconoscimento per quello che fanno.

A molti che non fanno l’educatore, il lavoro che fanno non piace per nulla. E se possono non parlano volentieri di quello che fanno: vagare con il muletto otto ore spostando pallets con sopra quintali di merci più o meno deperibili, spalmare catrame in autostrada, consegnare pizze su motorini esausti dall’altra parte della città, essere insultati allo sportello delle poste o di una banca da segretarie d’azienda acide che hanno fretta di risolvere il problema del loro capo, caricare manualmente macchine impacchettatrici con vaschette di wc net, ecc…

Ho cominciato a ragionare su quanto venivo sfruttato e usato malamente dai proprietari dei mezzi di produzione per i quali ho lavorato per anni, quando ho compreso che quel lavoro non era il mio: le relazioni che avevo costruito con gli “utenti” non erano il frutto di qualcosa di cui ero proprietario, la mia creatività non era per realizzare artigianato, ma per fabbricare legami per conto terzi. C’è voluto tempo per aprire il conflitto con quelli che amichevolmente mi usavano. C’è voluto tempo per sottrarmi al gioco del “siamo tutti sulla stessa barca”. C’è voluto tempo per capire che ogni educatore è unico e non ha padroni.

Ma vaglielo a spiegare all’educatore che sotto padrone il suo mestiere diventa quella roba lì: un lavoro come tanti. E che se lo vogliono cambiare (ammesso che lo vogliano cambiare….) occorre guardarlo prima nel suo rovescio. Nel suo essere anche il cucchiaino di merda che ognuno, per portare a casa il pane, deve ingoiare. Come dice il mio amico Beppe.

Pubblicato da Paolo Patuelli

Sociologo Clinico, Counselor ad Orientamento Psicoanalitico

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